Proponiamo alcuni estratti dal saggio: "L'editoria in quarantena" di Luca Pantarotto, curatore della comunicazione digitale per NN editore, pubblicato in #iostoacasaaleggereepoi? : biblioteche, librerie, lettori ed editori di fronte al Covid-19 edito da Fondazione per Leggere 2020 a cura di Luca Ferrieri, Federico Scarioni, Paolo Testori.
Il primo punto è che non eravamo pronti. Nessuno lo era, è vero, ma il mondo del libro forse meno di tutti. Tra la fine di febbraio e l’inizio di marzo l’editoria italiana ha speso più energie nell’affermare l'importanza di non fermarsi di quante ne abbia impiegate per immaginare strategie adatte ad affrontare un blocco che si annunciava sempre più inevitabile. Eppure i dati parlavano chiaro: la verità è che ci stavamo già fermando. A poco più di una decina di giorni dall’inizio dell’emergenza il comparto editoriale perdeva il 23% sul mercato nazionale. Le librerie restavano aperte, ma ancora per poco; voci di chiusura sempre più insistenti, visitatori sempre più radi, presentazioni cancellate, tour degli autori sospesi, fiere annullate o rinviate stavano a indicare che fosse il caso di prepararsi al peggio. Un orizzonte quanto mai confuso, che non consentiva altra navigazione se non quella a vista e in cui un settore già fragile non aveva speranze di riuscire a corazzarsi per resistere all’urto.
C’è però anche un secondo punto, forse persino più importante. La cultura del libro si è sempre basata su alcuni assunti tanto radicati da diventare proverbiali: “i libri salvano la vita”. Siamo abituati a considerarli beni di primaria importanza, il necessario corredo di un’esistenza che non potrebbe in alcun modo ritenersi completa senza il nutrimento spirituale fornito dal piacere di leggere una bella storia. Il fatto è che l’epoca di relativa pace e stabilità in cui ci siamo trovati a vivere ci ha sempre garantito il lusso di poter considerare i libri un elemento costitutivo del nostro modo di stare al mondo. Qualcosa che ci sarebbe stato sempre: dopotutto nemmeno durante la Seconda guerra mondiale si è smesso di pubblicare: perché fermarsi adesso? L’ormai famoso DPCM dell’11 marzo ha dato una risposta piuttosto eloquente a questa domanda: perché, al contrario di quello che ci siamo sempre raccontati, i libri non servono. O almeno non servono così tanto, quando è in corso un’emergenza sanitaria di portata globale.
Decretando la chiusura, a partire dal giorno successivo, di tutte le attività commerciali al dettaglio tranne quelle legate alla vendita di generi alimentari e beni di prima necessità, per la prima volta nella storia lo Stato stabiliva per legge che i libri, al pari di migliaia di altri prodotti, sono da ritenersi beni non essenziali. Al di là delle conseguenze immediate, la misura aveva anche un impatto emotivo non trascurabile: ogni singolo ingrediente che compone l’immaginario collettivo tradizionalmente legato all’idea del libro e della lettura si ritrovava, inaspettatamente e all’improvviso, ribaltato in un fattore di rischio. Toccare, sfogliare e annusare i volumi: ma come, se non abbiamo certezze sulla permanenza del virus sulla carta? La libreria come spazio di libertà, luogo per eccellenza di confronto e relazione? Certo, ma anche di assembramento e quindi di contagio. Per non parlare del dialogo con il libraio, da sempre occasione di scambio e scoperta, ora scoraggiato in quanto potenziale veicolo virale.
Mica facile reagire in fretta, quando da un giorno all’altro scopri di essere un elemento non essenziale della società. Il 12 marzo la chiusura delle librerie determinava inevitabilmente l’arresto istantaneo di tutto il sistema, a ritroso. Come tante tessere di un domino rovesciato il sistema si ripiegava su se stesso, a partire dall’ultimo, fondamentale anello della catena. Tutto fermo, quindi?
Non proprio. Le immagini dei librai indipendenti, in bicicletta davanti alle rispettive librerie, nell’atto di partire per consegnare libri a domicilio, per esempio, fanno già parte di una specie di “mitologia editoriale” dell’emergenza. Fin da subito si sono moltiplicate iniziative di collaborazione tra librai, editori e alcuni promotori e distributori, grazie alla quale il commercio di libri ha saputo riorganizzarsi in modi e formule nuove e originali, svincolando il libraio dalla fisicità del punto vendita e sviluppando soluzioni alternative potenzialmente destinate, almeno in parte, a rimanere. Certo, nulla di risolutivo sul piano economico: semmai la lodevole capacità di improvvisazione creativa di un settore che cerca in ogni modo di non affondare del tutto nell’emergenza. Con la prospettiva auspicabile di non disperdere un simile capitale di collaborazione e mutuo appoggio neanche dopo, ma anzi di servirsene come punto di partenza per una riflessione più ampia sul funzionamento della filiera. Perché un intero sistema produttivo e commerciale che rischia il collasso per poche settimane di stop ha evidentemente qualcosa che non funziona nelle dinamiche che lo governano. E gli editori? In un mercato che non ha mai saputo o voluto investire a dovere sull’e-commerce e il digitale, la necessità di dover smaterializzare da un giorno all’altro ogni segmento della propria attività, dalla produzione alla vendita, e la prospettiva di riprogrammare, perlomeno sul breve e medio termine, la propria stessa sostenibilità economica sono qualcosa di più di un incidente di percorso. Al pari delle librerie, tuttavia, anche gli editori hanno iniziato presto a riprendersi, ingegnandosi a cercare soluzioni per mantenere intatto il filo con il proprio pubblico. La cosiddetta “solidarietà digitale” è stata la prima via: marchi e piattaforme si sono attrezzati per mettere a disposizione e-book gratuiti o a prezzi simbolici, oppure realizzando pubblicazioni speciali a fini benefici. Il bisogno di vicinanza in un momento in cui la prossimità fìsica era sconsigliata, quando non addirittura proibita, ha mostrato tutte le potenzialità di mezzi e strumenti che per abitudine inveterata abbiamo sempre considerato poco più che facoltativi, accessori di un’attività ancora orientata su meccanismi di funzionamento di stampo novecentesco.
Rallentare, sì, restando in attesa, ma senza fermarsi del tutto.